A proposito di U. Reifner, Mythos Schuldnerberatung: Vergib unsere Schuld, wie auch wir vergeben unseren Schuldigern, Vortrag in der Vortragsreihe für Schuldenfragen, 16.5.2013, Pfarreizentrum Liebrauen Zürich.
by Alessandro Somma
I.
Siamo nel 2013, l’ultimo anno del secondo esecutivo presieduto da Angela Merkel, a capo di una coalizione di Cristianodemocratici, Cristianosociali e Liberali. È in questo frangente che il Parlamento tedesco discute di una riforma della disciplina dell’insolvenza con disposizioni dedicate anche ai consumatori, poi approvata come Gesetz zur Verkürzung des Restschuldbefreiungsverfahrens und zur Stärkung der Gläubigerrechte (del 15 luglio 2013). La riforma è voluta fortemente dai Liberali, qualificati da Udo Reifner come “il partito di chi possiede i soldi”, quindi il partito dei creditori, che li concedono in prestito a consumatori, imprese e Stati, ovviamente dietro il pagamento di interessi. I debitori dovrebbe essere considerati dei benefattori, dal momento che fanno fruttare somme di denaro altrimenti destinate a rappresentare una ricchezza inerte. E invece sono bistrattati dagli autori della riforma, tanto che per Reifner essa determina “un ritorno al principio del XIX secolo”.
A partire da questo episodio si sviluppano brevi ma incisive riflessioni che muovono dal senso del neoliberalismo in quanto attuale fondamento dello stare insieme come società, per poi considerare nel merito il ruolo del debito in quanto dispositivo biopolitico.
II.
Prima di entrare in dialogo con queste riflessioni vorrei sottolineare un pregio di questo scritto, in qualche modo amplificato dal suo essere concepito per una occasione ben precisa: una conferenza per un pubblico di persone più o meno esperte di indebitamento, ma non necessariamente in quanto giuristi. Di qui lo stile tendenzialmente divulgativo, che pure nulla toglie alla precisione e profondità del discorso, e soprattutto il ricorso ad immagini ed espressioni forti, pensate per impressionare l’ascoltatore prima e il lettore poi.
È uno stile poco utilizzato dai cultori del diritto, che di norma reputano il carattere scientifico di una trattazione compatibile unicamente con il ricorso a linguaggi paludati, a dimostrazioni in punta di penna, ad argomentazioni capaci di testimoniare l’incrollabile equilibrio di chi le propone. Come se il diritto fosse una scienza esatta, come se non coinvolgesse passioni ed emozioni al pari della politica, di cui costituisce del resto una diretta espressione.
Proprio questo viene invece occultato dal giurista, di norma intento a legittimare il proprio ruolo sfoggiando capacità innate di maneggiare un complesso di conoscenze tecniche, in quanto tale distante dall’arena politica. Salvo poi scoprire che, dopo aver contribuito a creare un clima di accettazione per la tecnocrazia, non è più lui il tecnocrate di moda. Questo ruolo, infatti, è stato usurpato dall’economista, dal quale il giurista non può fare altro che mutuare il linguaggio e le teorie sempre più indispensabili ad attribuire significato alle parole dei più disparati legislatori.
Se dunque vuole recuperare visibilità sulla scena del dibattito pubblico, il cultore del diritto deve ripoliticizzare il suo discorso, e deve farlo senza nascondere le passioni che questo comporta. E senza per questo rinunciare al carattere scientifico del suo argomentare, all’articolata dimostrazione delle tesi sostenute, dando così finalmente vita a un filone letterario che altri studiosi frequentano da tempo con successo: primo fra tutti Simon Springer con il suo “fotti il neoliberalismo“((Springer, Fuck Neoliberalism, in 15 International Journal for Critical Geographies, 2016, p. 285 ss. http://142.207.145.31/index.php/acme/article/download/1342/1172.)).
Il linguaggio di Reifner non è così colorito, ma non per questo è meno forte: stigmatizza fin dall’inizio il carattere autoritario del neoliberalismo ben esemplificato dalla nota ma poco evocata attività dei Chicago Boys nel Cile degli anni Settanta e Ottanta, ovvero “dall’accoppiata di Friedman e Pinochet”. E liquida il sistema del credito erogato dalle banche come “sfruttamento senza scrupoli dei più poveri sostenuto dalla legislazione europea”. Per poi concludere che ci troviamo in un conflitto tra classi, tuttavia non quelle identificate da Marx, ovvero i capitalisti e i lavoratori, bensì quelle cui prelude la distinzione di Engels e Kautsky tra persone a cui sono riconosciuti diritti e persone senza diritti: i creditori e i debitori.
III.
La classe dei creditori, chiosa Reifner, è la stessa degli “investitori”. Una classe che in effetti è collocata al centro dell’ordine economico di matrice neoliberale in quanto ordine incentrato sulla libera circolazione dei fattori produttivi: in particolare dei capitali. Se questi non hanno frontiere, allora gli Stati devono essere disposti a fare qualsiasi cosa per attirarli, ovvero per attirare investitori, a partire dall’abbassamento delle pressione fiscale sulle imprese e dalla svalutazione e precarizzazione del lavoro.
Prima non era così. Era diffusa l’idea che le merci dovessero circolare liberamente, ma si riteneva che lo stesso non valesse per i capitali: era questo il senso del cosiddetto compromesso di Bretton Woods, così denominato perché raggiunto in occasione della celeberrima conferenza tenutasi presso l’omonima cittadina sul finire del primo conflitto mondiale. In quell’occasione si affermò solennemente che occorreva combattere la disoccupazione rivitalizzando il commercio internazionale, se del caso fornendo capitali ai Paesi bisognosi attraverso una Banca mondiale. La libera circolazione dei capitali avrebbe invece rappresentato una minaccia((Cfr. M. Morgenthau, Closing Address to the Conference, in International Monetary Fund and International Bank for Reconstruction and Development. Articles of Agreement, Washington, U.S. Treasury, 1944, p. iv.)), tanto che nello Statuto del Fondo monetario internazionale si dice esplicitamente che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali” (art. vi).
Il neoliberalismo incide profondamente su questo assetto. Del resto si è affermato nel corso degli anni Ottanta per rovesciare lo schema alla base dei cosiddetti Trenta gloriosi, pensato per tenere insieme crescita e occupazione: lo schema alla base della spirale virtuosa originata dal potere contrattuale dei lavoratori, produttiva di una buona crescita dei livelli salariali, a sua volta motore per l’incremento dei consumi, e quindi dell’occupazione e della forza dei lavoratori. Evidentemente gli effetti della libera circolazione dei capitali avrebbero inceppato un sistema incentrato sul sostegno della domanda, alimentato anche dalla redistribuzione della ricchezza realizzata dalle strutture dello Stato sociale: il rovesciamento del compromesso di Bretton Woods e l’affossamento del compromesso keynesiano sono le due facce della stessa medaglia.
IV.
L’interesse per il contributo di Reifner non risiede solo nell’indicazione degli investitori, ovvero dei creditori, quali tipi umani di riferimento per l’edificazione e lo sviluppo del neoliberalismo. Particolarmente apprezzabile è anche l’individuazione delle dinamiche intimamente biopolitiche che sostengono un simile sviluppo, del resto ben esemplificate dall’espressione tedesca Schuld: che in italiano, e in diverse altre lingue, significa sia “debito”, sia “colpa”.
Reifner sottolinea come questa identificazione sia funzionale “a una sfrenata globalizzazione del modo di pensare capitalista”. Produce infatti “una buona morale dei pagamenti”, e con ciò “il radicamento in noi di una prigione che ci siamo scelti”, utilizzata tuttavia per legittimare gli attacchi, anzi le bastonate ai debitori insolventi: il Schuldnerbashing. Tutto questo mentre soprattutto i politici neoliberali mostrano atteggiamenti di tutt’altro tipo nei confronti di chi possiede ingenti somme di denaro, quindi dei creditori, spesso e volentieri protetti con il segreto bancario. Più precisamente: mano pesante con una categoria composta nella stragrande maggioranza dei casi da disoccupati o comunque caduti in disgrazia per motivi a loro non imputabili, e mano di velluto con “gli investitori, i fondi speculativi, gli strozzini”. E si potrebbe aggiungere: mano pesante anche contro i creditori socialmente deboli, se è vero che i mitici Rapporti Doing business della Banca mondiale, catalizzatori di riforme in linea con l’ortodossia neoliberale, sponsorizzano l’abbandono della categoria dei creditori privilegiati: in massima parte lavoratori rimasti senza stipendio nel periodo precedente il fallimento del datore di lavoro((A. Somma, Giustizia o pacificazione sociale? La codeterminazione nello scontro tra modelli di capitalismo, in Politica del diritto, 2015, p. 549 ss.)).
Ovviamente non è sempre stato così, e anzi l’osservazione storica mostra che la remissione dei debiti ha una lunga tradizione((A.D. Manfredini, Rimetti a noi i nostri debiti. Forme della remissione del debito dall’antichità all’esperienza europea contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2013.)). È cioè tipico del neoliberalismo utilizzare il debito come strumento attraverso cui produrre e governare le soggettività individuali, ma anche quelle collettive((M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2012.)).
Lo si ricava al meglio osservando le correnti modalità con cui si procede allo sviluppo della costruzione europea: la stigmatizzazione del debito sovrano al solo fine di imporre forme di assistenza finanziaria condizionate all’adozione di specifiche riforme strutturali. Il tutto alla base di una vera e propria economia del debito, tale in quanto fondata su rapporti che, diversamente dalle relazioni di scambio, sono anche formalmente instaurate tra soggetti impari. Di qui la particolare radicalità delle riforme, che nel disprezzo delle più elementari regole democratiche determinano una contrazione della spesa sociale, la privatizzazione del patrimonio pubblico, la liberalizzazione dei servizi locali e la riduzione delle relazioni di lavoro a relazioni di mercato qualsiasi((A. Somma, The Biopolitics of Debt-Economy. Market Order, Ascetic and Hedonist Morality, in B. Keller, A. Somma, P. Zumbansen (a cura di), Reshaping Markets. Economic Governance, the Global Financial Crisis and Liberal Utopia, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, p. 115 ss.)).
V.
Come precisato da Reifner, il denaro dato a prestito si iscrive in un rapporto che dal punto di vista del senso economico dell’operazione ben può essere qualificata come locazione di denaro. Di qui lo specifico interesse del creditore non tanto alla restituzione della somma, bensì a percepire gli interessi il più possibile elevati, soprattutto per un tempo il più esteso possibile.
Questo schema è applicato con particolare accanimento nei confronti dei debitori sovrani, il cui comportamento è anch’esso plasmato dai canoni della moralità in linea con l’economia del debito: quella per cui prevale l’obbligo di ripagare il debito su tutti gli altri obblighi incombenti sull’ente pubblico, innanzi tutto quello di assicurare il godimento dei diritti fondamentali.
A questi aspetti si è dedicato il Rapporto sulla riforma del sistema monetario e finanziario internazionale predisposto nell’ambito delle Nazioni Unite da una commissione presieduta da Joseph Stiglitz((United Nations, Report of the Commission of Experts of the President of the United Nation General Assembly on Reforms of the International Monetary and Financial System del 21 settembre 2009, www.un.org/ga/econcrisissummit/docs/FinalReport_CoE.pdf, p. 121 ss.)). Lì si affronta l’essenza dell’economia del debito: l’assoggettamento incondizionato del Paese debitore alla volontà dei creditori più forti e spregiudicati, che può essere efficacemente contrastato solo interrompendo la spirale dell’indebitamento: con l’insolvenza sovrana. Il tutto, però, solo se si abbandona l’attuale modo di gestirla((Su cui C. Paulus, A Resolvency Proceeding for Defaulting Sovereigns, in 3 International Insolvency Law Review, 2012, p. 1 ss.)), se si adottano cioè procedure partecipate in cui siano previsti audit pubblici, ritenuti la modalità principe con cui ottenere “una ristrutturazione trasparente ed equa del debito, ed eventualmente una sua cancellazione”.
Il tema dell’equità, accanto a quello della trasparenza, è un punto centrale nel Rapporto Stiglitz, dove si stigmatizzano gli effetti che il modo attuale di affrontare il debito sovrano produce in particolare sul sistema dei diritti sociali: le politiche di austerità imposte dal servizio del debito violano “i diritti dei cittadini comuni, cioè i diritti all’istruzione, alla salute e alla pensione”. Ma è proprio questo ciò che accade nel momento in cui si condiziona la concessione di prestiti al rovesciamento del compromesso keynesiano((T. Mahmud, Is it Greek or déjà vu all over again? Neoliberalism and Winners and Losers of International Debt Crises, in 52 Loyola University Chicago Law Journal, 2011, p. 629 ss.)), che ancora una volta si conferma essere l’obiettivo primo dell’ortodossia neoliberale.